L'Alto Nido

 

L'ALTO NIDO di Roxane Van Iperen
Edito: Bompiani - Pagine: 446


Consigliato a chi non ha più speranza... né coraggio. 
Somministrazione: prendere esempio.
Mensch, darf te leven ("Uomo osa vivere")

Fin da piccoli ci hanno abituati alla guerra. L'abbiamo studiata sui banchi di scuola ripetutamente, l'abbiamo ricordata ogni 27 gennaio seduti comodamente su poltrone di un qualche teatro dove qualcuno - che non ascoltavamo neanche poi tanto - ci raccontava dei propri incubi vissuti.
Quando penso alla guerra, ai nazisti, agli ebrei deportati, ai campi di concentramento, non percepisco una materia tangibile. Dopotutto potremmo dire "che non ci riguarda".
Siamo stati abituati.
E in qualche modo "costretti". Ma ciò in pochi casi ha portato ad una riflessione VERA.

Leggendo questo libro di denuncia, ho sentito il mio corpo scombussolarsi ad ogni pagina girata. Mal di stomaco, tic nervoso al sopracciglio, respiro affannoso, gambe tremolanti, bocca arricciata, occhi strabuzzati. 

Roxane Van Iperen è l'attuale proprietaria dell'Alto Nido, «'t Hooge Nest», una casa che, fin dal nome, è stata la salvezza-rifugio di più famiglie durante la resistenza partigiana che sì, non c'era solo in Italia, ma ovunque. Siamo infatti nei Paesi Bassi, più precisamente a Naarden, nei pressi di Amsterdam. Qui si parla di Janny e Lien, due sorelle ebree olandesi: partigiane deportate come prigioniere politiche. Due dei pochissimi ebrei che hanno fatto ritorno a casa, rasate, piene di pidocchi, senza forze né speranza. 28 kilogrammi di esistenza.

Qua dentro si trova l'incredulità, il terrore, la resistenza, la resilienza, la disumanità, la violenza, la speranza, lo scherno, il dolore. Ci sono amicizie e famiglie distrutte da qualcosa che non si riesce a comprendere ancora adesso ma che, nella nostra generazione, fatica ad appiccicarsi sulla pelle.

Siamo fortunati. Siamo davvero fortunati.
Io lo capisco in tutta la sua grandezza solo adesso, che mi sono sentita trascinare da questi atroci testimonianze di vite spezzate per sempre. E quel numero impresso con l'inchiostro, ora fa male anche a me. 
C'è bisogno di questo: di leggere, leggere, leggere, ascoltare attentamente chi è stato vittima, per non credere che sia qualcosa di inventato. Anche se, dopotutto, queste cicatrici sono le più visibili e durature.

La mia paura adesso è questa: e se fra un po' di anni, quando non ci saranno più testimoni, qualcuno cercherà di far sparire tutte queste prove e ci illuderà che niente di tutto questo è esistito?
Oh mio Dio. Sto boccheggiando.

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L'Alto Nido ci rivela il punto di vista dei Paesi Bassi, una prospettiva a me completamente ignota. L'Olanda non viene mai nominata a fianco delle forze dell'Intesa, ma, come detto sopra, anche qua era attiva una forte resistenza. Infatti lo Stato, dichiarandosi neutrale a inizio guerra, venne subito occupato dai nazisti. Se in un primo momento ogni olandese pensava di rimanere illeso, e come tutti, che la guerra sarebbe finita nel giro di pochi mesi - se non settimane, la situazione divenne presto chiara. Amsterdam divenne la meta verso cui dirottare tutti gli ebrei dei Paesi Bassi «in attesa del successivo passaggio logistico della "soluzione della questione ebraica"»: Westerbork, campo di smistamento. Da qui c'erano varie destinazioni: a cominciare da Auschwitz I, campo base, presto allargato con Auschwitz II - o Auschwitz-Birkenau, grande oltre 350 campi da calcio - ai quali segue Auschwitz III; eri fortunato se finivi a Bergen-Belsen nella Germania del Nord.
Bergen-Belsen è un'ottima notizia. Qui non ci sono camere a gas, è un campo e basta.

Per arrivare ai campi di concentramento - che nella testa dei deportati erano solamente campi da lavoro dove sì, sarebbero stati degli schiavi, ma presto liberi - il viaggio era lungo e pietoso: quattro giorni e notti in treni merci senza uno spiraglio di aria e luce, "carrozze" piene zeppe che facevano ammonticchiare tutti gli uni sugli altri. Era questa una prima selezione: molti non sopravvivevano a queste condizioni da bestia. La seconda avveniva all'arrivo: vecchi, bambini e deboli erano mandati a farsi una doccia - di gas lo si capisce dopo. La terza: il controllo.

Sono state sbucciate, uno strato alla volta, come una cipolla, finché non è rimasto altro che il nucleo della loro esistenza. Prima hanno tolto loro il lavoro, le scuole, le case e la città. I vicini e gli amici. Poi le famiglie e la libertà. Infine i vestiti, i peli e i capelli, la loro immagine.

L'umanità era rimasta fuori dai cancelli, così come le condizioni igieniche. Bestie sono, e bestie rimangono.

A finire ad Auschwitz vi sono anche Janny e Lien, le protagoniste. A un anno dalla conclusione della guerra, vengono scoperte insieme alle loro famiglie, all'Alto Nido, nonostante i nascondigli e il sistema di avviso del pericolo messi in atto. Torturate prima ancora di arrivare al campo, hanno capito fin da subito che l'unica salvezza, se ce ne fosse stata poi una, era rimanere insieme e farsi coraggio, anche con rabbia e mancanza di forza. Ed è proprio questo il segreto: sapere di avere una spalla e una ragione per uscire da lì vive. Ad Auschwitz incontrano anche le sorelle Frank, Anna e Margot, con le quali arriveranno fino a Bergen-Belsen dove però, le due sorelle Frank, non sopravvivranno a una malattia.

È il 15 aprile 1945 e gli inglese liberano Bergen-Belsen. Sparsi per il campo rinvengono sessantamila prigionieri ridotti a pelle e ossa e tredicimila cadaveri in diversi stadi di decomposizione. In ospedali da campo allestiti a tempi record cominciano le operazioni di salvataggio dei sopravvissuti, un quarto dei quali perderà la vita nel giro delle settimane successive.

Un libro da un impatto tremendamente forte. Da leggere e interiorizzare per non dimenticare MAI.

È il 1988 quando Rebekka "Lien" Rebling-Brilleslijper muore.
È il 2003 quando muore Marianne "Janny" Brandes-Brilleslijper. 

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